Il tipo delle foglie, prima raccolta poetica dello scrittore Fabio Izzo

Dopo una decina di romanzi che lo hanno imposto come uno dei più interessanti scrittori italiani contemporanei, in grado di maneggiare con destrezza e sensibilità registri diversi, e due candidature al Premio Strega, Fabio Izzo intraprende un nuovo percorso artistico con “Il tipo delle foglie“(Edizioni Terra d’Ulivi), sua prima raccolta di poesie.

Come sempre incline a narrare la crisi di valori umani della società moderna, la raccolta rappresenta l’affresco di una realtà votata all’alienazione e allo svilimento dei sentimenti. Abbiamo approfittato dell’uscita de “Il Tipo delle Foglie” per rivolgergli qualche domanda.

– Cosa aggiunge la poesia alla potenza espressiva della tua narrativa?

Se parliamo di poesia, poesia poesia, poesia ideale, per intenderci, dire che per aggiungere…non aggiunge nulla, è un’altra via, un altro sentiero che segue un percorso diverso e forse, non porta da nessuna parte, perché quello che conta qui è l’intento, la manifestazione…non saprei di sicuro modella, scolpisce, taglia, cesella, disossa il verbo e il pensiero. La poesia è spoglia, mette a nudo, mostra l’essenziale, non è decorativa come la prosa ma è più diretta“.

  • Chi è “il tipo delle foglie”? Sembra quasi il voler individuare con una figura eterea, impersonale, sfuggente una ben definita immagine di essere umano.

Il tipo delle foglie è l’ultimo essere umano, tipo Charlton Eston ne Il Pianeta delle scimmie. Scappa da un mondo asociale, tribale, concentrato su interessi personali, accumuli di ogni bene e miope, alla ricerca di un mondo semifreddo, nuovo a metà, dove si possa ancora essere qualcuno che ha intenzione di raccogliere le foglie e non solo di indossarle nel tentativo di nascondere le proprie vergogne“.

Le foglie rappresentano di per sé un esempio di caducità e di forza allo stesso tempo. Esemplari rappresentazioni di forza e rigogliosità in primavera. Simbolo di instabilità e precarietà in autunno: è in questa duplice valenza contraddittoria che “il tipo delle foglie” vuol raccontare la vita?

C’è tutto l’arco narrativo dell’esistenza, c’è il richiamo biblico, la prima grande storia mai raccontata da queste parte. Il tipo delle foglie è l’ultimo verbo, l’ultima parola che non spetta sempre al più saggio ma a chi ha qualcosa da dire forse anche tramite l’esprit d’escalier. Trascorriamo l’esistenza a reagire senza essere propositivi e il tipo delle foglie se ne rammarica nel suo giardino. In fondo, lo stesso Sigfrido, è morto per non essere stato attento a una foglia, no?

Scrivere è come cucire, l’ago è la penna la stoffa le parole. Quanto riconosci del tuo scrivere in questa suggestione richiamata dal componimento che chiude la raccolta?

Per diversi motivi io cito sempre quel mondo arcaico distrutto dalla follia della IIGM, lo shtetl. Lì il sarto era un filosofo e il barbiere era un poeta, e viceceversa. Personalmente, mi sono ritirato anni fa ormai, nel mio shtetl personale, Acqui Terme e continuo a vedere la vita in questo modo. La scrittura è un agire sociale, non un’arte fine a se stessa. Non si scrivono poesie per cucire i vestiti nuovi, tanto belli quanto invisibili dell’imperatore. Si versano parole per cucire insieme, quel trattato di esistenza che inizia oggi e che prima o poi finirà. Raccogliendo agli scampoli, come nel mio caso“.

La composizione in versi è un arte che si potrebbe definire manuale, un percorso artigiano in una realtà tecnologica. La poesia, se possibile, è ancor di più anacronistica in un contesto sociale in cui l’immagine è tutto. Come può una forma di espressione tanto lontana dalla realtà che viviamo riuscire a descriverla appieno?

Stiamo vivendo? Il punto è quello. Non lo stiamo più facendo. Siamo rinchiusi in gabbie mentali, in prigioni temporali, la più subdola è questa cosa tecnologica che si finge democratica ma che spinge a essere competitivi. Virali, bisogna essere virali. Non ti suona brutto o strano? Eppure è quello che tutti vogliono essere. La poesia no. Non è virale, non la considera nessuno è per questo ha tutto il suo tempo, il tempo del mondo per dirci che a forza di competere su ogni cosa abbiamo perso su tutto. In fondo meglio essere vitali che virali, no?” 

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