Nel 1973 George Harrison stava venendo fuori in maniera significativa dalla separazione dei Beatles. Era divenuto una superstar solista grazie al triplo album All Thing Must Pass ed al concerto per il Bangladesh. Un evento di beneficienza contraddistinto da nobili intenti e da un cast di star. Finalmente si era liberato dei Fab Four e aveva raggiunto ciò che aveva sempre desiderato. Presumibile che adesso fosse tutto a posto. Non esattamente. Harrison si trovava nel bel mezzo di una crisi spirituale, che era assolutamente palpabile in Living in the material world. Il suo capolavoro dimenticato, nonché l’album più peculiare della sua carriera.

E’ strano che la nuova edizione non sia stata pubblicata l’anno scorso, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario. Nel corso degli anni All Thing Must Pass ha ottenuto sempre maggior riconoscimento, fino ad offuscare Material World, il quale è rimasto relegato tra i dischi minori dei Beatles solisti, in compagnia di Red Rose Speedway, Live Peace in Toronto 1969 e Ringo the 4th. Gli eredi non sono mai sembrati desiderosi di conferirgli nuova visibilità. Nel 1973 arriva finalmente il suo momento. L’album rappresenta il lavoro di una band, la seconda migliore che abbia mai avuto, composta da un ristretto numero di amici fidati: Klaus Voorman al basso, Jim Keltner alla batteria, Nicky Hopkins al pianoforte, Gary Wright all’organo. Il suono è intimo, a misura d’uomo, caratterizzato da una semplicità che risulta magnifica in brani come Be Here Now, Don’t Let Me Wait Two Long e nella hit Give Me Love (Give Me Peace On Earth).

George Harrison merita di essere riscoperto

Per la prima volta come produttore di sé stesso Harrison tornava a suonare il Sitar, lo strumento che lo aveva avviato verso il suo percorso spirituale, ma con cui non aveva registrato nulla da anni. E’ il suo album cantautorale di Indie/Rock ante litteram. Talvolta potrebbe ricordare Elliott Smith o i Pavement, soprattutto per l’atmosfera in The Day The World Gets Round. L’umore di Harrison non era dei migliori. Nonostante la sua svolta religiosa, si trovava immerso nel caos del sesso e della droga. Dopo il duro lavoro intrapreso per il Bangladesh si sentiva tradito. Gli amministratori di cui si era fidato avevano gestito malamente i fondi, lasciandolo con un milione di sterline di tasse da saldare. Inoltre vi era l’infinito garbuglio legale dei Beatles che lo aveva ispirato a scrivere Sue Me, Sue You Blues.

A livello più personale, il dolore per la perdita della sua amatissima madre Louise, avvenuta nel luglio del 1970, era diventato un peso insostenibile e ciò si rifletteva in tutta la sua musica. In particolare nell’incantevole inno Be Here Now possiamo scorgere il lamento di un figlio afflitto dal dolore, il quale ripete il mantra “non è più come prima”. Il Sitar produce quella caratteristica sonorità ostinata tipica della musica indiana, ma è anche una composizione molto californiana, scritta sulle colline di Hollywood, con accordi di chitarra che ricordano Neil Young. Il disco bonus è una vera gioia, infatti presenta versioni alternative mai ascoltate prima di alcune canzoni.

Nel momento in cui, alla conclusione degli anni ’80, la carriera di George Harrison ha nuovamente preso slancio, le persone erano così entusiaste di riavere George Harrison con loro da decidere di perdonargli una significativa porzione della sua produzione degli anni ’70. Ciò ha comportato, tuttavia, la necessità di accantonare anche della grande musica. Living In The Material World è un album ricco di momenti che rispecchiano appieno lo stile di Harrison, il quale merita di essere riscoperto.

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