Probabilmente il segreto dell’eterna giovinezza di Bryan Adams è nell’irrefrenabile gioia che il rocker canadese mette dentro ogni suo progetto artistico.
Da più di 20 anni il rocker coltiva l’hobby della fotografia, che non è più una passione secondaria rispetto alla musica ma un lavoro vero e proprio. Un impegno questo che lo ha portato a collaborazioni di altissimo livello, ultima fra tutte quella per la realizzazione del calendario Pirelli. Bryan Adams rimane però sempre uno dei musicisti di spicco nel panorama del rock internazionale.
Perché sarà pure indiscutibile che i brani di maggior successo del canadese siano una manciata di ballatone strappacuore da lento delle feste di liceo ma altrettanto indiscutibile è che la cifra stilistica dei suoi dischi rimane saldamente ancorata a chitarrone e riff energici sin dagli esordi. Per ogni “Everything I do” c’è sempre stata una “Summer of 69“, per ogni “Heaven” una “18 till I die“.
“Questo album l’ho concepito al termine della pandemia, sulla felicità ritrovata dopo aver perso tanta spontaneità”
“So happy it hurts” muove i passi proprio da qui e si sente. Il rock bagnato nel pop del 62enne è una costante che non ammette deroghe. Una certezza incrollabile che certamente non introduce novità nella sua discografia ma che non tradisce e non annoia. Dalla title track a “On the road” fino a “Kick Ass“, impreziosita dall’intro dell’ex Monthy Phyton John Cleese, i 12 brani sono un ottimo compendio della carriera di Adams. Allo stesso tempo rappresentano un segnale forte e deciso di una vitalità artistica che i 40 e passa anni di carriera non hanno minimamente intaccato.